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amareilmare

~ Azzurro, come il mare dove si vorrebbe annegare per soddisfare quel pazzo desiderio di immenso

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Murìu, murù, mossi

11 lunedì Feb 2019

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Tag

parole, Sicilia, storia

 

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-Buongiorno! Ecco le arancine calde calde! Dai mangiate!-

La nonna era scesa presto e da buona palermitana era andata a comprare le arancine per fare colazione.

         -Nonna, noi prendiamo il latte la mattina-

         -Mangia questa delizia del palato che ti viene il sorriso solo solo-

E sì, i palermitani, o almeno sua nonna e sua zia, erano così: festaioli a cominciare da cosa si mangiava al mattino.

         -Arancina, nonna? Hai sbagliato, si chiama arancino.-

-Senti, non mi fare arrabbiare cu sti parrati catanisi. Arancina si chiama perché è tonda e arancione come l’arancia. A Catania non le sanno fare- sentenziò la donna.

A Cettina piaceva tantissimo quel modo di parlare, quel modo di fare così immediato, senza ripensamenti!

-Oggi si va al mercato! E poi al mare!- disse la zia

Attraversarono via Maqueda e si trovarono immerse all’interno del mercato di Sant’Agostino, un tripudio di scarpe, calzini, abiti, stoffe dove entrava e usciva come un venticello allegro un forte e invitante odore di sfincione.

-Cavuru cavuru è!!!- gridava il venditore dal carretto trainato da un somarello stordito dalle grida del padrone e dall’odore.

-Sfincione?! Ma è una pizza che odora di cipolla e formaggio! A Catania lo sfincione è fatto con il riso ed è fritto. E poi ha la forma di un bastoncino.-

-Ed è dolce, con lo zucchero spruzzato sopra!-

Le due sorelline erano curiose e divertite: una stessa parola indicava cose diverse se ci si spostava di qualche centinaio di chilometri in quella Sicilia bedda, come diceva la nonna.

-Arancino, arancina; sfincione. E’ storia, è tradizione. Le parole sono un poco come la porta della storia, delle tradizioni, del modo di fare della gente che nei secoli si è incontrata e ha imparato a vivere insieme. Apri una parola e ci trovi i greci, i normanni, gli arabi e prima ancora i siculi e i sicani. Vi racconto una cosa divertente: una volta è stato ospite da noi un ragazzo del messinese, un ragazzo semplice, figlio di contadini. Guardando una foto che si trovava su un mobile, ci chiese: -murù?-

Noi, a Palermo, alla parola “murù” ne facciamo corrispondere tre: “me lo dai”. Quindi in uno slancio di cortesia, lo invitammo a prendere quella foto: sembrava che ci tenesse tanto! Continuammo in questo sforzo interpretativo, fino a quando lui con un gesto della mano non ci fece capire che voleva sapere se la persona nella foto fosse morta! No! Incredibile! Tre parole per dire la stessa cosa! A distanza di qualche centinaio di chilometri! A Palermo diciamo “muriu”, per indicare qualcuno che è morto. A Catania, “mossi”, non è vero? Murù, muriu, mossi, cioè “è morto”-

Risero: quella zia riusciva a farle divertire anche con cose che potevano sembrare noiose.

-Ora comunque prendiamo un bel pezzo di sfincione e ce lo portiamo per uno spuntino al mare.- disse la zia, ormai immersa nell’ idea di realizzare una giornata fantastica.

E fantastico lo era stato davvero quel giorno: il mare, il sole, una passeggiata a Villa Favorita, la Palazzina cinese, il museo Pitrè e Palermo in tutto il suo splendore.

Antica canzone

31 giovedì Gen 2019

Posted by paolina campo in Sicilia

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canto antico, Rosa Balistreri, Sicilia

https://youtu.be/aWu3UR-Vzlc

Mi votu e mi rivotu suspirannu,
passu li notti ‘nteri senza sonnu,
e li biddizzi tòi vaiu cuntimplannu,
li passu di la notti nzinu a gghiornu,
Pi tia non pozzu ora cchiu arripusari,
paci non havi chiù st’afflittu cori.
Lu sai quannu ca iu t’aju a lassari
Quannu la vita mia finisci e mori.

 

Mi giro e mi rigiro sospirando, / passo intere notti senza sonno, / e vado contemplando le tue bellezze, / le penso dalla notte fino a giorno, / per te non posso ora più riposare, / pace non ha più questo cuore afflitto, / Lo sai quando io ti devo lasciare / quando la mia vita finisce e muore.

Questo antico canto popolare siciliano, di cui non si conosce l’autore, è presente nel libro Canti popolari siciliani di Salomone Marino Salvatore del 1867 e nelle raccolte di Giuseppe Pitre’, medico palermitano vissuto tra l’Ottocento e il Novecento, amante e studioso delle tradizioni della sua terra.

Rosa Balistreri, cantante e autrice siciliana scomparsa nel 1990, diede un’interpretazione potente del canto. La voce, l’enfasi, il ritmo, il trasporto, la passione trascinano l’ascoltatore in una dimensione di amore totale, profondo. Rosa Balistreri, ebbe una vita travagliata, difficile che non la piegò ma anzi la rese forte e determinata. In un’intervista affermò di avere sentito quel canto  in carcere a Palermo e pensava che il detenuto che la intonava ne fosse l’autore.

Una donna, una voce: la forza di denunciare al mondo intero le ingiustizie, le prevaricazioni, ma anche le passioni forti di una terra calda come il cuore di un innamorato che arde e lotta per il suo amore fino alla morte.

 

La strage del pane

23 lunedì Ott 2017

Posted by paolina campo in Sicilia, storia

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Tag

microstoria spesso dimenticata, seconda guerra mondiale, Sicilia, storia della gente, storia nei libri

 

Ottobre 1944: i grandi del tempo tessevano ancora la trama fitta della guerra, mentre i piccoli del tempo morivano o cercavano di avere una voce. La strage del pane fu l’umiliazione di gente provata non solo dalla fame, dalla povertà, dalla distruzione. Fu l’umiliazione di non potere avere la possibilità di esprimere la rabbia, la stanchezza, il dolore stratificati nella mente e nel cuore, nelle ossa e nello stomaco. Perché si ha bisogno del pane ma la dignità di un uomo si costruisce anche, si innalza anche sul diritto ad avere una voce.

La strage del pane

Se volessi raccontare Palermo e la Sicilia

le botti di sangue che bagnano pietre piccole e grandi

che come fiume correrebbe e forte scorrerebbe violento

il fiume Oreto scomparirebbe e cambierebbe colore

pure il mare…se la storia provasse 

ad andare a scuola, fare di conto, sommare croci

di morti senza nome né peccato…

Dovrebbe mettersi rannicchiata

come se contasse i peli dell’aglio

le stelle in cielo, le onde del mare

che numero, peso, misura non hanno…

come mai nei secoli…peso e misura ha mai

dato la storia, la giustizia, a tutte le stragi

rubando memoria al tempo, alla gente!

Quella che ora vi racconto è una di tante…

Era il 19 d’ottobre del millenovecento

quarantaquattro, io avevo otto mesi.

Mia madre, domestica, non poté andare

a scioperare, a gridare, insieme

ai tanti morti di fame, che la miseria

teneva legati, come  asini alla catena!

A mia nonna però, femmina senza scuola,

bastava un bicchiere di vino per sciogliere

lingua e pensieri…filosofa diventava:

“Mi sembra come fosse stato ieri, quei maledetti,

hanno avuto il coraggio di sparare a gente

come me: otto figli, il marito disperso

in guerra e la fame che usciva dalle orecchie.”

Raccontava mia nonna, di uomini, donne

ragazzi e bambini che correvano

impazziti, con gli occhi di fuori per la paura

dimenticando anche la fame, tra sangue

bombe e morti ammazzati, squartati

come agnelli pasquali…solo perché

chiedevano pane, lavoro, libertà!

Ora la storia la sappiamo tutti, non tutti

però sanno che sono venuti i pompieri

per lavare il sangue incrostato in via Maqueda,

sangue che ancora bolle, grida, sangue di madri,

di anime innocenti che hanno ancora fame,

ma solo di giustizia, leggi volate in aria

hanno lasciato macigni dentro il petto…

Macigni che pesano dentro il cuore di chi sa

infami menzogne…di chi dopo tre anni

nel giro di due giorni, per ordine di chi non si sa 

hanno chiuso il processo dicendo:-Bastardi 

assassini qua non ce n’é… E’ stato eccesso di zelo…

Soldati armati, che dovevano difendersi

dalle solite teste calde dei siciliani…”Sobillatori!”-

“Sobillatori!”, ricomincia amara mia nonna

finendo il bicchiere di vino che ha davanti…

“Sobillatori!”…donne, bambini e ragazzi

che avevano tutti meno di vent’anni!

Michela Rinaudo (Lina La Mattina), poetessa siciliana.

«Da via Maqueda -citiamo da Fortuna e Uboldi- il corteo degli scioperanti muove verso il Comune, che è retto da un commissario prefettizio, il barone Enrico Merlo: in seguito, travolti i cordoni di polizia, si dirige verso la Prefettura dove in assenza del prefetto il suo vice, dottor Pampilonia, chiede aiuto al comando del Corpo d’armata di Palermo. La richiesta è pressante: il comando del Corpo d’armata invia un contingente di militari della divisione Sabauda, che è comandata dal generale Castellano, l’uomo dell’armistizio di Cassibile. Giunti alla Prefettura, i soldati ritengono di trovarsi di fronte a una sommossa, fanno uso delle armi. Vengono uccisi novanta dimostranti; un centinaio di feriti.»

Indro Montanelli, STORIA D’ITALIA, Edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano, 2004, vol. 9, pag. 160-161

 

 

 

 

 

 

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